Traduzione di Silvia Lavina
Se rinunciamo a identificare la realtà con l’incubo del quotidiano, per poterla ritrovare in quell’allusione che affiora nella fuggitiva voce di un verso, allora possiamo forse riconoscere nelle poesie di Gonzalo Márquez qui presentate quel prezioso strumento che, nella tragica condizione in cui versa il mondo moderno, schiavo dei meccanismi di potere, possiede la capacità di impedire l’umiliazione dell’essere umano e preservarne invece la dignità. La poesia, infatti, mostrando l’incoerenza della realtà, fonda una barricata spirituale essenziale alla sopravvivenza di una forma autentica del pensare. Quest’ultima deve fare i conti con la morte e con l’istante, rinunciando a rincorrere un pensiero stabilizzante e risultando così quella forma filosofica di esistenza che riassume passato, presente e futuro e al contempo li dissolve. L’intimo convincimento del poeta colombiano corrisponde dunque all’ineludibile necessità di far retrocedere la parola poetica al suo originario essere riflessione, una sorta di torsione dell’esistenza su se stessa volta a ricercare una bussola interiore che indichi la direzione per l’ultimo atto di resistenza dei cospiratori e dei perseguitati. Secondo quanto ha indicato Marco Antonio Campos, quella di Márquez Cristo è una poesia vincolata all’enigma dell’oscurità che intende conservare gelosamente quelle fessure affatto luminose, bensì folgoranti e improvvise, che offrono unicamente, allo stesso modo di un oracolo, «un’alluvione di segni, risposte ambigue o messaggi oscuri». La parola poetica, dunque, come quell’attitudine di allerta mai pacificante nei confronti dell’enigma, che «rinuncia -scrive Eugenio Montejo- al corpo verticale della poesia», ed è proprio questa sua caratterizzazione indagante, e non già risolutoria, che tiene viva la sua forza di liberazione. In questo modo la poesia si converte in un susseguirsi di aforismi – impressioni frammentarie sull’universo e sull’esistenza – ai quali il lettore può corrispondere solo completando le loro curve mutilate. Franco Volpi, nel commentare l’opera di Márquez Cristo, riconosce che, «non sapendo da dove veniamo e non vedendo dove andiamo, ci occorrono gocce di lucidità. Tali sono le parole poetiche: scintille d’immaginazione nell’oscurità del cammino, arabeschi che la fantasia disegna intorno a un’immemorabile nascita e ad un imprevedibile destino, ricordi di sogni angelici e allusioni ad ombre infernali. Poetiamo perturbati dal mistero della carne, dalla sua densa e fugace presenza che attraversa la notte, brilla e si spegne. La poesia è l’unico luogo dove vale la pena abitare. Mentre leggiamo Oscura nascita, constatiamo: poetiamo, dunque siamo». Così accade anche nell’opera narrativa di Márquez Cristo, nella quale E. M. Cioran ha riconosciuto «una disputa tra filosofia e immagine, che sfocia fortunatamente in tragedia». Nella salvaguardia di un irresolubile dissidio tragico tra la parola e la cosa, tra l’immaginazione e la realtà, deve dunque consistere il compito del poeta, a cui Márquez Cristo affida temerariamente la protezione dell’istante.
RESTITUZIONI
Pretendo che tutto il perduto si converta in poesia.
Le ferite come gli uragani hanno un nome. E sebbene ignori perché intorno a me nascono gli abissi, fin dall’origine fui disonorato dalla felicità e dalla sua vetta inclemente.
Gli invasori resti del ricordo. La lotta della radice. L’antichità del silenzio...
Non porto fiori al cimitero del sogno, ma proseguo nonostante tutte le sabbie mobili dello spirito.
La colpa che non ti lascia partire è l’amore.
E ora la nebbia, la pioggia, l’assenza...
Lo squilibrio chiamato bellezza, la terribile orfanezza del sacro, la rosa ignea che mi guida nella disperazione...
So che il cammino finirà col trovarmi.
Come tutto ciò che si rende visibile per morire.
DISCESA ALLA LUCE
La notte è il mio ritorno. Percorro il museo dell’assenza.
Ogni sofferenza è inutile per chi non aspira alla poesia, per chi non alimenta le aquile coi suoi occhi.
Esercito la sete. Amo soltanto coloro che non riuscii a salvare.
Non esiste più un’oscurità che guidi i nostri sogni né i fantasmi del desiderio incompiuto; solo l’abietto scambio che ha sostituito il rito.
Non cerco più, perdo...
Nemmeno nello stupore trovo posto.
Non posso dimenticare ancora. Né pretendo conoscere le tre risposte celate dalla morte.
Qui nessuno manca dell’odio necessario per recuperare il paradiso, né confessa la sua dura caduta nel giorno.
Devo essere ombra o grido. Ritorno o nascita.
Ogni origine decreterà l’abolizione dell’io.
È allora che il respiro si farà verde.
E sebbene tutto sia dovuto al dolore... Avanzo: cado. Scelgo i cammini senza fine. Le voci che incendiano le tenebre. La poesia.
Tu lo sai, corpo tremante:
Non è nel tempo dove ho riposto le mie parole.
OSCURA NASCITA
A parte te, amo solo ciò che è di tutti...
Distruggo la mia alleanza con il sole. La mia fine prima o poi mi troverà. Trasformata in frammenti mi guidi al nuovo sapore, sapere dell’acqua. Quanti sogni non abbiamo usato?
Giri, ti perfezioni: diventi vegetale. Le tue dita cadono come foglie... Una parola agonizza. Divento cieco.
Nessuna delle mie domande ha risposta, dici con voce d’ambra. Né solitudine, né nascita...
Gli occhi si ribellano. Tra di noi sorge un dio effimero che dobbiamo divorare. Intimoriti consegniamo i nomi. Apprendiamo le prime sillabe. Non è possibile dimenticare la paura con le sue fondazioni, le sue gallerie sacre, le sue cupe genesi, i suoi fervidi pretesti... Sebbene talvolta ci separi l’amore.
Nessuno arde due volte nello stesso fuoco.
Donna, porta la terra, copriti con la tua ombra. Rinnovati nelle tenebre, scappa nel tuo respiro... Non sostituire la morte con la scrittura della verticalità...
Ascolta venire il tempo.
(A Pilar, disegno nell’acqua)
IN NOME DEL GRIDO
Credi molto nella sete: nella vita... Nell’invisibile. Dormi rivolto ad oriente. Ti purifichi nel pericolo. Nei libri smascheri il tempo, come fosse un uccello imbalsamato.
Nel bosco una quercia t’insegue. La luce ti nomina. Quando scegli la rotta del dolore, c’è chi ti offre un sorso d’acqua.
Desideri: speri sempre di sbagliarti. Assumi la tirannia dell’occhio chiamata viaggio e talvolta riesci a curare il tuo freddo con un viso.
Sai di un paradiso che non sarà mai memoria.
Assisti alla mascherata della sopravvivenza, sebbene un equatore distante e vorace attragga il tuo volo. Così riesci a proseguire.
Le tue parole cadono come pugni di terra su di un corpo nudo.
Qui comincia l’istante. Chi grida? Chi risponde tra il sangue? Chi scopre la sua ombra incandescente?
Che il grido possa sempre contenere la ferita..!
Che il linguaggio basti per non morire!
MESTIERE DELL’OBLIO
Una donna si bacia allo specchio, si occulta con la sua anima, l’acqua è la sua solitudine.
Un bambino nascosto in un armadio tenta di morire.
Le lacrime di un uomo cadono nella sua tazza di caffè.
Un’adolescente trattiene con l’indice la lancetta dell’orologio e rabbrividisce.
Nel vento c’è un messaggio che non comprenderemo.
La tua ombra si ribella.
Ci prepariamo a fuggire da tutto ciò che amiamo.
Chi non parte sarà dimenticato.
Il vento dialoga con il fuoco.
Aspetto la mia voce.
Anche viaggiare è il contrario della morte.
Finché il seme ingannerà l’uccello non saremo perduti.
Ci ameremo in altri visi.
Nessuno si occulta nella memoria.
Verrà qualcuno a seppellire i nostri nomi?